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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

A Emmaus per guardare negli occhi il Viandante

di Bruno Forte

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23 agosto 2009

Abu Gosh - identificata al tempo dei Crociati come il villaggio di Emmaus - era l'ultima tappa del nostro pellegrinaggio in Terra Santa. Salimmo dapprima in alto sulla collina, dove dal giardino a terrazza delle Suore di Maria, Arca dell'Alleanza, avremmo potuto ammirare ancora una volta Gerusalemme, netta fra le colline all'orizzonte, solenne nelle sue sagome di pietra, immersa nella sua ineguagliabile luce dorata. In quel posto gli ozevanim - gli ebrei costretti a lasciare la Città Santa - solevano piangere e strapparsi le vesti, per esprimere il senso di lacerazione e perfino di bestemmia provato nel separarsi da Sion. La nostalgia prendeva anche il nostro cuore.
Dalla collina scendemmo alla Chiesa crociata, purissima nelle sue linee gotiche. Un'antica iscrizione marmorea all'esterno della cripta riportava il nome della X Legio Fretensis, la legione romana di occupazione ai tempi del cristianesimo nascente. La comunità monastica, col suo canto in latino, ebraico e francese, rendeva quel luogo una sorta di sigillo orante del dialogo necessario fra le fedi e le culture. Lo splendore del giardino, inondato dal sole dell'estate, che esaltava i colori e bruciava nell'aria i profumi, rendendoli quasi tocchi d'incenso, sembrò ancor più illuminarsi alla luce del racconto: era la narrazione del giorno della storia che avrei voluto vivere, "il primo giorno della settimana" dopo i dolorosi e misteriosi eventi di quella Pasqua singolare.

In quel giorno, anonimo agli occhi delle cronache, due discepoli del Nazareno erano in cammino verso quel villaggio, distante circa 11 chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre discutevano, lo Straniero si avvicinò e prese a camminare accanto a loro. I loro occhi erano però impediti nel riconoscerlo. Fu lui a rompere il ghiaccio. «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?», chiese.

S i fermarono, col volto che tradiva la profonda tristezza del cuore: essi lo avevano amato, avevano creduto in lui, giocando la loro vita nella decisione di seguirlo. E ora tutto era finito, nel modo più doloroso, certamente il più scandaloso per loro: morto appeso al palo della vergogna, il Rabbi che li aveva incantati, il loro Maestro, pareva essere stato smentito dai fatti. Quel suo grido sulla Croce aveva fatto risuonare assordante il silenzio del Padre, di cui pure tanto aveva parlato: «Elì, Elì, lemà sabactàni?» (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). L'amore non può perdonare la morte: perciò il loro cuore era triste, perché la morte pareva aver inghiottito il loro Signore, e con lui ogni loro speranza, per sempre.

Uno dei due - si chiamava Clèopa - rispose allo Straniero con una battuta, fra il lamentoso e l'ironico: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Lo Straniero sembrò far più caso al dolore, che all'ironia, e domandò col tono che scioglie le labbra e fa venir fuori la pena nascosta: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele; invece, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Solo alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto».

Le parole erano uscite dalla bocca di Clèopa come un fiume in piena. Il suo compagno (chi era? io? tu?) era rimasto in silenzio, del tutto partecipe, come se l'altro avesse saputo esprimere perfettamente il tumulto del suo cuore. Lo Straniero ebbe una reazione singolare. Senza mezzi termini apostrofò i due: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Da pii figli d'Israele, i due erano abituati a far memoria della straordinaria storia d'amore fra il Dio unico e il popolo eletto, rivivendola ogni volta con partecipazione intensa, in ogni tappa. Mai però il loro cuore si era acceso così all'ascolto di qualcuno.

Fra lo stupore e il timore cominciò a farsi strada in loro una domanda: perché le parole di quello Straniero prendevano così la loro anima? Non aveva qualcosa in comune quella voce con quella del Profeta di Galilea, in cui avevano creduto? Possibile che fosse lui? La sua morte era fuori discussione. Ma profezie enigmatiche non erano mancate nella sua predicazione: «Distruggete questo tempio - aveva ad esempio detto una volta - e in tre giorni lo farò risorgere». Chiunque fosse quell'uomo, era bello ascoltarlo e il cuore si struggeva alle sue parole. Era come una tenebra che andava rischiarandosi, come quella della notte prossima alla luce dell'aurora.

  CONTINUA ...»

23 agosto 2009
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